Primavera 2014. Frequentavo il primo anno di università, il secondo semestre era appena iniziato. Dopo tre tristi mesi d’inverno, le giornate si stavano allungando nuovamente. Fu forse la luce alle sei di sera a causarmi un risveglio interiore; uno dei tanti risvegli di quegli anni, alternati a momenti di crisi.
Di punto in bianco, volevo mettermi in gioco. Mi piaceva scrivere sul diario, mi piaceva da morire leggere, volevo prendere una penna in mano, volevo battere le dita sulla tastiera! Volevo scrivere.
Cominciai a giocare con la prosa con il sogno di pubblicare un giorno un famoso romanzo. Dopotutto leggevo molti romanzi, li amavo. Per questo motivo impiegai molte energie nel creare qualcosa, ma con il tempo le persi con frustrazione. La costruzione di un racconto o di un romanzo non è di certo un’operazione semplice e non mi veniva spontaneo, generando in me sentimenti d’amore e d’odio. Ma di questo parleremo forse un’altra volta.
Al contempo, quella primavera avevo deciso di provare anche un altro linguaggio: la poesia. Non ero un’esperta, anzi, l’avevo studiata solo al liceo classico e, a dire il vero, neanche mi piaceva: imparare a memoria i significati mi faceva percepire i versi come una fredda successione di parole.
Perché ho provato la poesia? Per il motivo più banale, ovvero avevo una cotta. Una cotta per una persona che per me brillava come il sole e aveva gli occhi blu come il mare. Il suo fascino era intraducibile se non attraverso frammenti, sprazzi di frasi che tentavano di rincorrere delle sensazioni. La poesia andava oltre la razionalità e la coerenza richieste dalla prosa (spoiler: non fui mai degnata di uno sguardo).
Da quel momento, ci presi gusto e tentai di scrivere qualche poesia sulla mia quotidianità: cotte non ricambiate, amicizie iniziate e finite, ma anche l’angoscia che mi prendeva spesso alla bocca dello stomaco durante i miei vent’anni. Ero una persona insicura. E per dipiù ho sempre avuto un carattere introverso, riflessivo, silenzioso.
Poteva capitare di scrivere versi ogni due mesi, ma, quando capitava, me ne uscivano tre o quattro insieme. Parlavano di me senza filtri, dei miei desideri e della rabbia che all’epoca non riuscivo a esprimere. La poesia dava voce alla mia parte più intima. Nel frattempo, nessuno intorno a me sapeva che scrivevo.
Anni dopo lasciai perdere la prosa. Avevo scritto qualche racconto, un romanzo malfatto che sta benissimo lì dov’è (nel cassetto) e non avevo più nulla da dire su quel fronte per i motivi già citati. Invece, avevo necessità di tradurre in parole immagini immediate e la poesia si è fatta sempre più spazio nella mia vita.
Nel 2021 ero arrivata a centotrenta poesie. Mi sono accorta che raccontavano una storia. Erano bellissime. Lo sono ancora perché sono pezzi di me. Nella primavera del 2021 ero di buon umore e mi sono chiesta, “perché non pubblicarle?”. Avevo sognato di pubblicare un libro, ma questa idea mi era sembrata spesso irraggiungibile. In quel momento, invece, ci provai senza aspettarmi nulla. Nessun giudizio avrebbe potuto scalfire il rispetto che avevo per la mia produzione, in quanto rappresentava il mio vissuto, come quando scrivi un diario e comprendi più a fondo quello che ti è accaduto. Selezionai una cinquantina di componimenti e scelsi di chiamare la raccolta Sul ciglio di un desiderio. Il titolo mi è venuto in mente in quanto le poesie parlano di desiderio, di diversi desideri intimi: l’amore, la sessualità, il desiderio di stare bene e di volersi bene, il desiderio anche della morte nei momenti peggiori.
Grazie a Controluna Edizioni, Sul ciglio di un desiderio è un libro vero. Si tratta di un piccolo miracolo, il quale ha reso la mia vita migliore. Non c’è niente di più soddisfacente di trasformare i due di picche in una vittoria.
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